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CCLXIII
A Giovan Iacopo Bonetto.
Dotto, saggio, gentil, chiaro Bonetto,
la cui bontá il bel nome ancor pareggia,
e l’alta cortesia, che signoreggia
il nobil cor, ch’a ogniun vi rende accetto,
saper bramo io dal vostro almo intelletto,
che le cose segrete in Dio vagheggia,
quale è piú, il danno o l’util che si veggia
il mondo trar da l’amoroso affetto.
Ditemi ancor perché fu Amor dipinto
giá dagli antichi, e da’ moderni ancora
si pinge faretrato, ignudo e cieco.
Questo dubbio da voi mi sia distinto,
che nel mio cor gran tempo giá dimora,
mercé de l’ignoranzia ch’è ognor meco.
CCLXIV
Risposta ad un incerto encomiatore.
È sí gradito e sí dolce l’obietto
del mio foco, signor, e tanto e tale,
che di soffrir ardendo non mi cale
ogni acerbo martír, ogni dispetto.
Duolmi sol ch’io non sia degno ricetto
di tanto bene e a tanta fiamma eguale,
e che ’l mio stil sia infermo, stanco e frale
a portar l’opra, ove giunge il concetto.
E sopra tutto duolmi che la ria
mia fortuna s’ingegna sí sovente
a dilungar da me la gloria mia.
Che mi giova, signor, che fra la gente,
illustre, come dite, e chiara io sia,
se dentro l’alma mia gioia non sente?