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i - rime d'amore | 97 |
CLXXVII
Lamentasi della fortuna, essendo prossima la partenza di lui.
Poi che tu mandi a far tanta dimora,
empia Fortuna, in sí lontan paese
il chiaro e vivo raggio che m’accese,
empia ed aversa a’ miei disiri ognora,
conveniente e giusto e degno fôra
che tu mi fossi almen tanto cortese,
che quest’ore sí brevi avesse spese
qui meco tutte lui che m’innamora;
sí che ’l cor e gli orecchi e gli occhi insieme
prendesser cibo a sostenermi in vita
quel lungo tempo poi ch’ei fia lontano.
Ma tu stai dura, ed io mi doglio invano,
dal ciel, da te e poi d’Amor tradita:
però l’alma di ciò sospira e geme.
CLXXVIII
Egli la strazia e tradisce: ella pur l’ama.
Perché mi sii, signor, crudo e selvaggio,
disdegnoso, inumano ed inclemente,
perché abbi vòlto altrove ultimamente
spirto, pensieri, cor, anima e raggio,
non per questo adivien che ’l foco, ch’aggio
nel petto acceso, si spenga o s’allente;
anzi si fa piú vivo e piú cocente,
quant’ha da te piú strazi e fiero oltraggio.
Ché, s’io t’amassi come l’altre fanno,
t’amerei solo e seguirei fin tanto
ch’io ne sentissi utile, e non danno;
ma per ciò ch’amo te, amo quel santo
lume, che gli occhi miei visto prima hanno,
convien ch’io t’ami a l’allegrezza e al pianto.