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Come il solito, ella si annoiava e metteva in ridicolo i giovanotti con i quali le capitava di trovarsi. Non ve ne era uno, secondo lei, che meritasse un po’ d’attenzione.
«E quand’anche?» concludeva passando dalla satira al sarcasmo. — «Quand’anche, a che mi gioverebbe? Io non ho speranze; dunque, non mi resta che ridere e deridere, come fanno di solito gli impotenti».
Parole simili facevano pena a Maria; sentiva che erano sincere, non già una posa romantica come affettavano di credere l’Eugenia e Flora Ermondi. Non posa, no, bensì una vera malattia morale, forse incurabile. Ma da dove veniva quella malattia in una fanciulla così giovane, e apparentemente sanissima? Quali scosse, quali delusioni precoci potevano averla cagionata? Derivava forse dall’educazione troppo fredda e scettica ricevuta in casa dei suoi zii?
L’avvocato Amilcare Pagliardi, spirito acre, sarcastico, spietato nella critica, era ben capace di avere distrutte le speranze e le illusioni della giovinetta; e la maldicenza meschina, che fioriva nelle conversazioni frequentate dalla signora Ersilia, poteva avervi contribuito. Anche il saper d’essere una ragazza senza dote, in un ambiente dove il denaro teneva il primo posto e l’essere ricchi sembrava cosa indispensabile alla vita, poteva contribuire in parte allo scoraggiamento di quell’anima.