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Difatti era un rimprovero. Poichè in quel tinello appunto si era compiuta la domestica tragedia. Dopo una lotta di opinioni, un giorno, mangiando la minestra, il marchese aveva annunziato alla moglie ed al figlio, che questi doveva prepararsi a partire per l’America fra pochi giorni. A Rio Janeiro lo aspettava una magnifica esistenza, quale principale impiegato in una grandiosa casa di commercio: una vera fortuna!

Tutto era stabilito; l’impegno preso; i denari del viaggio anticipati; non rimaneva che partire, obbedire e ringraziare il buon padre.

E il giovine era partito. Ma per ritornare in capo a sei o sette mesi, rovinato di salute, morente, appena in tempo per esalare l’ultimo sospiro sul travagliato cuore della madre.

Vent’anni erano trascorsi, e la piaga sanguinava ancora; la madre non poteva dimenticare, e l’abisso scavato tra marito e moglie non poteva essere colmato neppure dalla religione.

Quando appresi questa storia guardai la marchesa con altri occhi e le perdonai molte cose, nella mia infantile giustizia.

Ma la pietà dei mali altrui non poteva ancora impedire che io mi ribellassi alla noia, all’oppressione di quella vita.

Invocavo il collegio e mi rammaricavo di non esservi rinchiusa. Non avevo amici: Fiume, Cesare, Dorotea, le cuginette, lontani tutti! Erano in campagna loro, i felici! E io dovevo andare dalla maestra di cucito e ricevere le lezioni noiose, insopportabili, di un vecchio prete!

La sera, due o tre volte la settimana, arrivava l’uomo del battello recante dalla campagna grandi ceste piene di legumi, di verdure, di polli, di cacciagione, di frutte.


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