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Nella vecchia carrozza ci si sdraiava con voluttà sui guanciali sdrusciti, sulle molle sfondate, ma ancora abbastanza buone per cullarci sotto a un forte impulso di ondulazione.

Allora io sognavo di viaggiare e la fantasia mi portava lontano, in paesi nuovi, sconosciuti, dove diventavo l’eroina di straordinarie avventure.

Qualche volta io raccontavo questi sogni ad alta voce e il mio uditorio si divertiva.

Ma un altro asilo piacevole per quelle ore era la stanzetta di Dorotea, la guardarobiera.

Un giorno, verso la fine della villeggiatura autunnale che fu l’ultima della mia infanzia, accadde che io avessi estremo bisogno di ricorrere alla sapienza e alla bontà di Dorotea. Avevo passato la mattinata con le raccoglitrici d’olive, trascinandomi in terra, arrampicandomi su gli olivi, scavalcando muri. A tali prove la mia gonnella di lana sottile non aveva resistito: uno strappo enorme l’aveva aperta dall’alto al basso.

Per andare a desinare l’avevo appuntata con gli spilli; ma guai a me se arrivavo a sera senza che il danno fosse riparato!

Si andò tutti da Dorotea.

La buona donna non era malcontenta di quelle visite che rompevano con un po’ di chiasso la monotonia della sua esistenza.

Era sui quaranta. Piccolina, tozza, aveva gli occhi neri e scintillanti come due chicchi di jais; i capelli crespi; la pelle bruciata. Apparteneva anche lei alla famiglia; era nata marchesa Cravenna, ma da un ramo completamente deca-