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tanta pena, mantenuto a costo di tanti sacrifizi e umiliazioni segrete.

E non era più al caso di ricominciare, altro che per precipitare rapidamente nell’oscura mediocrità, e poi nella abbiettezza che le sta tanto vicina.

Forse era venuto il momento di eclissarsi, di sparire, facendosi un’aureola con quel resto di gloria giovanile, che i bei capelli biondi le mettevano ancora intorno alla fronte.

Sparire! Sfuggire agli occhi avidi di contemplare la miseria altrui, lasciando ancora qualche rimpianto e il ricordo incancellato di una splendida apparizione. Atterrare con un sol colpo la statua già tanto ammirata e distruggerla, prima che lo scherno degli uomini noti la sua decadenza, e il rozzo villano la inzaccheri di fango. Naufragare superbamente in mezzo all’oceano piuttosto che rimaner galleggiante alla riva, nudo e spregiato avanzo della tempesta.

L’anima assorbita in questa tetra meditazione, Edvige rimaneva immobile, con le braccia pendenti, il collo teso, le pupille fisse. Non vedeva più Gilda, non vedeva più Lea. Pensieri torbidi e immagini confuse turbinavano nel suo cervello. Si sentiva annientata.

Cercò di scuotersi. Ma una strana sensazione fisica la fece traballare: non sentiva più il peso del corpo e le pareva che il pavimento si allontanasse. Cercò un appoggio e trovò la sedia, su cui s’abbandonò, nascondendo la testa fra le mani.

Piangeva. Era un intenerimento improvviso, una reazione dei nervi, contro cui la sua volontà non poteva nulla.