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Il professore traversò due stanze buie, trascinandosi dietro la figlia, e sostò in una sala dov’era un po’ di luce.
Una enorme libreria occupava la parete di fondo di questa sala, destinata alla lettura e, in casi eccezionali, alla scherma; le altre pareti erano decorate da carte geografiche e fasci d’armi disposti a guisa di trofei. Una stuoia di juta copriva l’ammattonato. Pochi mobili: alcuni tavolini, una scrivania in un cantone, e varie sedie e seggioloni coperti di cuoio e ornati di borchie dorate, imitazioni dell’antico, di fabbrica milanese.
Su un tavolino agonizzava per tre beccucci una lucernina d’ottone, lucente come oro. E soltanto questa lucernina dalle catenelle scintillanti rivelava la vecchia casa di provincia.
Da una finestra rimasta aperta si vedeva il giardino pieno di neve e una distesa di cielo imbiancato dai primi lucori dell’alba.
Il professore trascinò Argìa fino a quella