Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
— 289 — |
Diceva così perchè voleva illudersi che non fosse vero; ma, sicuro della verità, tremava raccapricciando.
— Non vaneggio, no; non sono pazzo ancora. L’ho ammazzato.
— Ma come? Perchè?...
— Mi ha insultato: ho perso la testa. Prendi. Questa è la chiave della sala da pranzo dove l’ho chiuso perchè le donne non si spaventassero. Va, ti prego, conducile via subito; conducile a Milano. La mia povera Annetta sarà disperata.
S’inteneriva al pensiero della figlia sua. Le lagrime gli facevano nodo alla gola.
— Vado in questura a consegnarmi — disse, dominandosi. — Prendi il mio portafogli, questa è la chiave della mia scrivania. Prendi il denaro necessario. Addio!
Fece alcuni passi; poi si voltò, vide il povero Fabbi come impietrito sull’uscio di casa, gli occhi fissi su lui. Tornò indietro, profondamente commosso e gli buttò le braccia al collo singhiozzando.
Fabbi piangeva in silenzio.
Passò una donna con un bimbo per mano, e si fermò a guardarli nella penombra.
— Va, Marco, addio! Fatti coraggio. Ti raccomando la mia povera Annetta!
— Addio! Oh! se avessi immaginato una catastrofe simile, non t’avrei lasciato solo neppure un minuto. Avrei dovuto pensarci.