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sei lasciata cogliere e hai dovuto implorare il suo perdono. Ora devi obbedire, ed io con te, ciò che mi pesa di molto.»

Cleofe inghiottiva, fingendo di non comprendere.

Per fortuna sua, ella si distraeva in quei preparativi; tanto più che doveva pensare anche per sè.

L’abito di «cerimonia» come diceva il figurino, era uno splendore: tutto in velluto eliotropio con un ricamo alto mezzo metro sul davanti della gonna; piccolo mantello di broccato con filetti d’oro intorno ai rilievi e frangia di martora; cappottina assortita — un gioiello!

Tutti i giorni la posta, o il corriere, un giovanotto del paese, portavano una fila di pacchi, di scatole, di cestelli. Parte regali, parte commissioni.

Una zia di Cleofe, abitante a Como, vecchia signora elegantissima, mandò una scrivania in palissandro con tutto il necessario per decorarla. Papeterie in cuoio di Russia con placche d’argento e iniziali scolpite; un calamaio graziosissimo, vari portapenne diversamente ornati, un nettapenne di velluto in forma di conchiglia; un buvard con un bellissimo ricamo fatto dalla zia, e un tagliacarte in forma di pugnale arabo — un vero pugnale dalla lama acuta e tagliente, dall’impugnatura tempestata di pietre.

La sposina ne fu incantata. Un pugnaletto arabo ridotto a uso di tagliacarte le pareva una stupenda invenzione, molto chic veramente. E lei che non leg-