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spirito. E dubitò di se stessa, di non aver vissuto interamente, di essere stata come defraudata delle più forti e delicate emozioni della vita. L’imagine di Leopoldo le traversò il pensiero come un fantasma. Ebbe quasi paura; e istintivamente si rifugiò nel suo amore materno, sentendo che là era grande, che là nessuno poteva vincerla.

— Figlia mia! amore mio! — sospirò quasi senza sapere.

La contemplava, l’accarezzava, la chiamava coi nomi più dolci. Ma la disgraziata le rispondeva appena, assorta nel suo dolore, pendente dalle labbra di quell’uomo, che, solo al mondo, poteva ridarle la pace, la vita. Cleofe sentiva la propria impotenza, senza gelosia, senza ribellione.

Una immensa, infinita pietà empiva il suo cuore; pietà riverente, quasi timida. Quella biondona, dalle forme poderose, con la sua facciona di latte e rosa, le appariva quale una debolissima bimba, circondata di pericoli, incapace di salvarsi senza il suo soccorso. Come soccorrerla?

Non vedeva nulla. Nessuna trovata balenava al suo spirito di solito così rapido e ricco di espedienti. Nulla.

Quell’amore doveva essere indistruttibile, dacché le parole crudeli e villane del cancelliere non l’avevano ucciso sul colpo. Inutile, dunque, il combatterlo.

Bisognava assecondarlo, appagarlo completamente.