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distinzione seconda. — cap. i. | 15 |
maniera, che vestito entrava nel fiume infino a gola, quando era il maggiore freddo; e uscendone fuori, stava co’ panni in dosso così molli al vento e al freddo, e facevagli agghiacciare alle carni; e poi iscaldava una grande caldaia d’acqua, nella quale bogliente entrava colle carni e con que’ panni ghiacciati; e poi anche rientrava nel fiume, e poi nella caldaia; e così facea tutto giorno, e perseverò insino alla fine. E quando era domandato perché così crudelmente si tormentava, rispondea, che s’eglino avessono veduto quello che vide egli, farebbono il somigliante, o più che non facea egli; e che volea temporalmente fare giustizia di sè, innanzi che altrove gli convenisse sostenere quello che avea veduto sostenere altrui sanza fine; chè la sua pena, per rispetto di quella che veduto avea, era leggiere, e anche dovea avere tosto fine. E di questo si parlerà più propiamente nel seguente capitolo.
CAPITOLO SECONDO.
Dove si dimostra la paura del divino giudicio c'induce a fare penitenzia.
La seconda cosa che c'induce a fare penitenzia è il timore e la paura del divino giudicio, il quale aspro e duro avrà a sostenere dopo la morte chi non si provvederà di purgare i suoi peccati in mentre che dura la presente vita. Quello che purga i peccati è la penitenzia, per la quale l’uomo sè medesimo giudica e fa giustizia di sé, punendo i mali c’ha fatti. E per tale modo iscampa l’uomo, e non ha a temere altro giudicio: chè, come dice la Scrittura, Dio non punisce due volte una medesima cosa. Anzi dice l’Apostolo messere san Pagolo: Si nosmetipsos iudicaremus, non utique iudicaremur: Se noi giudicassimo noi medesimi, per certo non saremmo poi giudicati. Onde dice san Gregorio: L’onnipotente Iddio, misericordioso giudice, ricevendo volentieri la nostra penitenzia, nasconde dal suo giudicio i nostri falli. E per ciò