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l'altro viaggio | 405 |
quasi falcon che uscendo dal cappello,
muove la testa, e con l’ale si plaude,
voglia mostrando e facendosi bello;
e ancora
quale sovr’esso il nido si rigira,
poi che ha pasciuto la cicogna i figli;
e ancora tali altri,
quale allodetta che in aere si spazia
prima cantando.
Qui è “dolce frui„, qui sono “fiori di letizia„ qui è “eterno piacere„. E come tal gioia è consolazione di quel pianto, così l’amore ardente e il caldo amore e il fuoco di vero amore è proprio il contrario di quel poco o lento amore, di quella tepidezza. E le parole scritte nell’aquila diligite iustitiam, si oppongono, la prima, a questa pochezza e lentezza e tepidezza d’amore, la seconda al diniego della giustizia, alla viltà che laggiù laggiù nel brago dello Stige rissa e gorgolia. E i gran regi, che staranno laggiù, quassù sono designati. Or non leggeremo noi in questo cielo la parola fortitudo? “O milizia del ciel„1 esclama il Poeta. E l’aquila se rende imagine di giustizia, ha, per ciò che ho detto, spirito di fortezza: di quella fortezza che fa alcuni uomini divini, come voleva Aristotele; di quella virtù eroica o divina che i dottori cristiani dicevano appunto, interpretando a modo loro Aristotele, ispirazione dello Spirito Santo, mediante i suoi doni.2