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l’altro viaggio | 341 |
nè l’ira è peccato. E in ciò contradice a Seneca il quale nega che la virtù debba mai essere irata, perchè “l’ira non è della dignità della virtù più che l’attristarsi„.1 Dante dunque, per questo rispetto, corregge Seneca.
E qui e altrove. Per esempio, quando Seneca dice che il sapiente, se avesse ad avere l’ira, sarebbe assai infelice, chè per tutto all’ira troverebbe motivo, quando, per esempio, vedesse il foro pieno piuttosto di fiere che di uomini, di uomini anzi peggiori delle fiere, di uomini che “mutua laceratione satiantur„;2 Dante corregge questo che è certo un suo autore, dicendo: E sì, il sapiente deve appunto aver qui la sua ira, che partita dalla medesima passione che quella, non è peccato ma virtù, e deve anche godere di tal vista, quando quella mutua lacerazione sia di giustizia.
Dante fa suo prò di tante asserzioni e osservazioni di Seneca, riducendole però alla sua norma peripatetica. Eccone alcune altre. “Che c’è di più insulso dell’iracondia che tumultua in vano?„3 È l’orgoglio di Filippo Argenti. “L’iracondia aiuta i leoni„.4 Se il leone è simbolo di violenza, è nel tempo stesso atto a significare l’ira. “Semplici (perchè esposti a ricevere il male) sono gl’iracondi in comparazione dei frodolenti e degli astuti„.5 In vero Dante pone in comparazione dei frodolenti, come rei di peccato meno complicato, i violenti: non forse i violenti sono iracondi? “Languido, si dice, è l’animo senz’ira. Bene: se però non ha nulla di più valido