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340 sotto il velame


V.


“Non è ira codesta; è bestialita (feritas)„1 leggeva, par certo, Dante in Seneca. E leggeva che Seneca confutava quest’asserzione dei peripatetici, dicendo: “E che, dunque? L’origine di questo male è l’ira la quale pose in oblìo la clemenza e ripudiò ogni umano patto e finì col mutarsi in crudeltà„.2 Ira, dunque, la bestialità; e non quel semplice moto che ubbidisce alla ragione, come quando “uno si crede leso, vuol vendicarsi, ma, dissuadendolo una causa, sbollisce„.3 Ira per Seneca è non il moto solo, ma l’impeto e l’abbrivo; è quella che “varca d’un salto la ragione, e porta via seco l’uomo„; è quella “concitazione dell’animo che va alla vendetta con la volontà e il giudicio„.4. Per altro, non è nei medesimi libri, ira la sola ferita: ira è anche quella che Dante punisce nello Stige. Invero “dell’iracondia è compagna la tristizia e in essa ogni ira si muta o dopo la penitenza o dopo la ripulsa„.5 Ebbene, Dante chiamava ira peccato codesta iracondia? No: egli quivi ricordava il maestro e pensava come lui che si battagliasse di parole. L’iracondia di cui è compagna la tristizia non è in sè e per sè peccato, poichè egli non mette soltanto nel fango dello Stige la tristizia vicina all’ira, ma anche in Virgilio; chè lo fa tornare indietro dalla porta di Dite con le ciglia rase di ogni baldanza e parlante tra i sospiri. Or in Virgilio come nè la tristizia così

  1. Sen. de ira II 5, 2.
  2. id. ib. 3
  3. id. ib. 5
  4. id. ib. 3, 4 e 5.
  5. id. ib. 6, 2.