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le rovine e il gran veglio | 253 |
per la fortezza ha passato a piedi asciutti la palude dei due vizi contrari a fortezza; per la giustizia ha disserrata la porta dell’ingiustizia; per la virtù eroica ha dischiuso il cammino a ciò che della virtù eroica è l’opposto: alla bestialità.
Ma la violenza è proprio bestialità? Invero nell’Etica Nicomachea il concetto di bestialità sembra differire da quello di Dante, se Dante chiama bestialità la violenza. Pure anche lì,1 con i cannibali e altri depravati, sono messi quelli che violano la natura ne’ loro piaceri; e tra altri dementi e morbosi è ricordato Falari, il cui bue Dante conosceva. Or nel primo girone sono i tiranni e nel terzo i sodomiti. Ma con un’altra opera Aristotele può aver suggerito al Poeta non solo che violenza, ossia la prima specie della malizia o ingiustizia, è bestialità; ma che la bestialità tipica è quella appunto dei tiranni, che primi Dante vede nella riviera di sangue. E troviamo in quel passo il leone, che può benissimo essere il nesso che nel pensiero di Dante collegò la vis Ciceroniana con la bestialità Aristotelica. A proposito di questa il filosofo osserva: “chi ha fatto più mali, tra un leone e Dionisio o Falari e Clearco e simili malvagi uomini?„2 Dove è da osservare che dopo Alessandro, nell’enumerazione che fa il Poeta, dei tiranni, è Dionisio fero: fero, cioè bestiale; chè feritas trovava egli per bestialità a ogni tratto.3 Or quando si pensi che la violenza è la prima specie dell’ingiustizia, si troverà che certamente egli la chiama ancora bestialità, da chi consi-