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228 | sotto il velame |
Si tratta dunque di sapere se qui, in questo canto, incontinente della passione ira vuol dire reo del peccato o del vizio d’ira, o altrimenti.
I peripatetici la passione d’ira chiamavano “cote della fortezza„.1 Dicevano che d’uno, se preso d’ira, molto più veemente era l’impeto e contro il nemico esterno e contro il cattivo cittadino. Dicevano che combattere per le leggi, per la libertà, per la patria, non si può fortemente, se dall’ira non è scaldata e arroventata la fortezza. Dietro loro S. Gregorio chiamava l’ira “strumento della virtù„, aggiungendo che l’ira non deve essere della mente la padrona ma l’ancella;2 un’ancella pronta sempre ai suoi servigi e che quindi sempre stia a tergo. La passione dell’ira, dice S. Tommaso, è utile, come pur tutti i movimenti dell’appetito sensitivo, a ciò che l’uomo più prontamente eseguisca quel che la ragione detta. E dice S. Tommaso che lodevole è questa passione dell’appetito sensitivo, lodevole l’appetito d’ira, “se qualcuno appetisce, che secondo l’ordine della ragione si faccia vendetta (giustizia); e questa si chiama ira per zelum„.3
Ora ognun vede che lo sdegno di Dante contro il pien di fango è questa ira per zelum. “Con piangere e con lutto„ esclama egli, rimani a scontare la tua pena, chè è su te giusta vendetta. Ognun vede che l’ira, a cui si dispone Virgilio, è quell’ira utile a più prontamente eseguire ciò che la ragione detta, è