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dell’ira veloce e speditiva. Nè si dica che ben può significare l’ira, come si disse prima, che medita la vendetta e non la fa. Come, anche ammettendo che quella si possa chiamare ira, come Dante che già degli altri peccati capitali ha data la figurazione etica precisa e intiera e generale, così, per esempio, da tradurre tanto chiaramente nel quarto cerchio e nel quinto il detto del mistico “che l’accidia dà all’anima dolore, e l’avarizia, fatica„;1 così per esempio, da porre nel medesimo cerchio, in balìa del medesimo vento la vinta da un punto e la legislatrice del vizio; qui l’ira significherebbe in una sua forma secondaria e imperfetta? Qual definizione potremmo noi raccoglierne? Questa: l’ira è quel peccato per cui non si lascia buona memoria di sè. Questa: l’ira è quel peccato per cui si medita la vendetta e non si fa. Ma tutto è piano e ragionevole, se diciamo: L’accidia è quel peccato per cui non si lascia alcuna buona memoria di sè; ed è, questo peccato, non solo dei timidi e dei lenti, ma di tanti altri audaci e bizzarri e orgogliosi, che paiono il contrario dei primi e su per giù sono tali e quali.

Ma Dante dice: color cui vinse l’ira. Dice: ira, ira, ira. Dunque è ira, quella del quinto cerchio,

  1. Hugo de S. Vict. All. in N.T. II, 5 «Acedia igitur animae dolorem facit, avaritia laborem, quia illa per tristitiam afficit, ista per varia desideria scindens in laboriosos conatus extendit». Altro da lui ha preso Dante, e anche, forse, la doppia manifestazione dell’accidia che è definita «tedio dell’anima... quando ella, perduto il suo bene, rimane solitaria e abbandonata e si muta sibi ipsi (in sè medesima) in amaritudine e dolore». Dolore è quello dei tristi, amaritudine quella dei rissosi. Non pare? E ciò non esclude l’equazione filosofica di accidia uguale a difetto di fortezza.