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le rovine e il gran veglio 217


               Quei fu al mondo persona orgogliosa:
               bontà non è che sua memoria fregi.

E orgoglio in Dante è il rimpettire e tronfiare e rotare dei colombi,1 e quel di Serse, a gettare un ponte sul mare,2 e quel degli Arabi a passar l’Alpe,3 e quel della gente nuova,4 e quel che cade, insieme con l’uncino, a Malacoda, appena Virgilio gli ha parlato.5 Tutte queste volte l’orgoglio è qualche cosa che cade subito, qualche cosa di vano e in sè e nell’effetto. Grazioso è il fatto dei colombi: il loro orgoglio, quella loro pettoruta e fremebonda alterigia, cessa a un tratto per una manata di becchime: beccano queti: a un tratto un sassolino che cade vicino a loro, li fa levar su in un impeto di paura. Non sono davvero forti, i cari colombi, ma orgogliosi o timidi. E passando agli uomini, orgoglio è, dunque, in Dante non tanto a indicare la grandezza del pericolo affrontato e dell’impresa assunta, quanto a significare la subita fine d’una vampa improvvisa e vana. Così è di Serse, così degli Arabi, così di Malacoda. E come non della gente nuova? E come non di Filippo Argenti?

Così inteso l’orgoglio è proprio tutt’uno con l’audacia. Nel libro di Tullio, donde prese la violenza e la frode, Dante leggeva un detto di Platone,6 che “un animo pronto al pericolo, se è spinto da sua cupidità, non dal comun bene, deve avere piuttosto il nome di audacia che di fortezza„. Ora egli dice di Filippo Argenti:

  1. Purg. II 126.
  2. Purg. XXVIII 72.
  3. Purg. VI 49.
  4. Inf. XVI 74.
  5. Inf. XXI 85.
  6. De off. I, 19. 63.