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le rovine e il gran veglio 191

vivente: avere come salvarsi; salvarsi da ciò appunto che è punito, senza più redenzione possibile, in quelli che vedono quel pendìo per cui non è possibile più riascendere, come non è più permesso uscire dalla porta aperta, una volta che si è morti. Ora, prima di tutto, è chiaro che più la salvazione, per il vivente, è facile, più la disperazione, per il morto, è grave. E così vediamo che gli sciaurati piangono più dei peccatori carnali; o almeno che il poeta significa il pianto di quelli con maggior menzione e più forti parole che il pianto di questi; mentre poi non parla affatto di pianti in faccia alle altre due rovine, sebbene per l’ultima egli noti che non è via per i morti.1 In secondo luogo Dante fa vedere che, per il vivente, la salvazione è a mano a mano più difficile. In vero dalla porta aperta si entra senz’altro; per la prima rovina si scende così agevolmente, che Minos grida: Non t’inganni codesta ampiezza: come a dire codesta agevolezza; per la seconda rovina i sassi movevansi per lo nuovo carco; per la terza, oltre che Dante fatica sì che quasi è vinto, per la terza, Dante non scende, ma sale. Ora la porta aperta significa la liberazione della volontà, significa la redenzione in generale dal peccato in generale. E la prima rovina è a capo dell’incontinenza e più particolarmente della concupiscenza; e la seconda a capo della malizia con forza e senza intelletto; e la terza nella bolgia degl’ipocriti, cioè

  1. Inf. XXIII 55. Il divieto o l’impossibilità è implicito in queste parole, che riguardano i diavoli e a più forte ragione i dannati:

                   Chè l’alta providenza che lor volle
                   porre ministri della fossa quinta,
                   poder di partirs’indi a tutti tolle.