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passo; dunque nel limbo. Egli non ha, misticamente, cambiato luogo: nel limbo era, nel limbo è. I morti non tornano in vita.

Dante entra dunque nella porta della Redenzione. Passa l’Acheronte, cioè muore. Se quella porta non era a lui aperta, egli non avrebbe potuto morire quella benefica morte al peccato in generale, al peccato che non può crescere o calare, perchè è il peccato,1 perchè è la morte, perchè è la tenebra. Ma Dante continua a morire, anzi si seppellisce, nel suo viaggio: alla carne o alla concupiscenza, e al veleno cioè alla malizia. C’è anche per queste morti un qualche mezzo che le renda possibili, come la porta disserrata dal Redentore fa possibile quella prima?

Sì: vi sono tre rovine.2 La prima si trova nel cerchio dei lussuriosi, la seconda sopra il cerchio dei violenti, la terza torno torno la bolgia degl’ipocriti. Gli spiriti dei peccatori carnali3

               quando giungon davanti alla ruina,
               quivi le strida, il compianto e il lamento,
               bestemmian quivi la virtù divina.

Così gl’ignavi del vestibolo sono presentati, con

  1. Summa 1a 2ae 82, 4. Il peccato originale non recepit plus et minus, ut mors et tenebra.
  2. Devo molto, per questo studio e per altro, all’acuto ed elegante ingegno di Raffaello Fornaciari, il quale è pur debitore, come esso afferma, a Luigi Bennassuti, uomo che nel miro gurge dantesco vide assai chiaro. Non noterò qua e là dove mi allontano dall’uno e dall’altro; rimando il lettore a tutto quel mirabile studio del Fornaciari, compreso negli «Studi su Dante, Milano 1883» sotto il titolo «La Ruina di Dante» (p. 31-45).
  3. Inf. V 34 segg.