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150 | sotto il velame |
abominarli così e dirli bruni a ogni conoscenza, egli volle per qualche suo effetto. E l’effetto è questo, di mostrare che essi sono come gl’ignavi e gli sciaurati di questo vizio, e che c’è, in questo vizio, qualche cosa di peggio sì, ma di men bruno, di più degno di come riprovazione così menzione.
Invero l’avarizia consiste nell’eccedere la misura con la quale si devono tenere le esteriori ricchezze. In ciò Dante è d’accordo con S. Tommaso.1 O non pensò egli, col medesimo suo autore, che eccedendo, cioè acquistando e conservando più del debito, l’uomo pecca direttamente contro il prossimo, “perchè non può, rispetto alle esterne dovizie, uno soprabbondare, se ad altro non difetta„? Anche mal tenendo, si può peccare contro il prossimo. E allora il mal tenere non è più d’incontinenza, ma di quell’altra disposizione, di cui ingiuria è il fine: di malizia. E dunque l’avarizia, come è mezza tra i peccati carnali e gli spirituali, così è mezza tra i peccati d’incontinenza e quelli di malizia. Il che è per me, da un pezzo, la stessa cosa.
E Dante poteva leggere pur nella Somma del buono frate Tommaso quest’altra faccia: anzi per certo, credo, la lesse. Lesse che l’avarizia è sì quella dismisura che abbiamo detto, e sì peggio; un’altra dismisura circa l’acquisto e il tener le ricchezze,2 “in quanto alcuno acquista danaro oltre il dovere, sottraendo o ritenendo l’altrui; e così si oppone alla giustizia„; vale a dire è malizia; “è in questo modo è intesa l’avarizia in Ezechiele, 22, dove è detto: I principi di lui nel mezzo di lui, come lupi che ra-