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come di volpe (vulpeculae), la violenza, di leone: l’una e l’altra alienissima dall’uomo (cioè straniera all’uomo, disumana); ma la frode è degna di maggior odio„. C’è qui la divisione della malizia, come Dante chiama quella che Cicerone chiama iniustitia, in violenza (vim) e frode, e anche il cenno della maggior gravità della frode. E nel medesimo trattato leggeva anche la ragione di questa maggior gravità:1 “in ogni ingiustizia corre molto divario, se l’ingiuria si commetta per un qualche turbamento dell’animo (animi), turbamento che per lo più è breve e lì per lì, o a bella posta e a caso pensato. Chè sono più leggeri i torti che accadono per qualche repentino moto, di quelli che si fanno dopo premeditazione e preparazione„. Ebbene chi dirà che Dante non abbia preso a Tullio quel simbolo del leone per la violenza o malizia di cui ingiuria è il fine, cioè ingiustizia con forza? Ma poi trovava la vulpecula per rappresentare la frode. E sì, avrebbe presa anche quella, come se ne ricordò per Guido da Montefeltro, di cui dice le opere “non leonine ma di volpe„, e “le volpi sì piene di froda„,2 come se ne ricordò per la “cuna del trionfal veiculo„,3 quando dopo l’aquila, a simboleggiare la persecuzione dei tiranni, cioè la violenza contro la chiesa, pone la volpe a simboleggiare l’eresia, la cauta e fraudolenta nemica; avrebbe presa anche la volpe, se così piccolo e vile animale, che Cicerone stesso abbassava con quel diminutivo di spregio, non gli fosse dispiaciuto. Dopo il ruggito del leone, il guaito

  1. De off. I 8, 27.
  2. Inf. XXVII 75; Purg. XIV 53.
  3. Purg. XXXII 109-120.