Pagina:Sonetti romaneschi VI.djvu/324

314 Er còllera mòribbus


8.

     Pe’ l’aàppunto, a pproposito de frati,
Curre la sciarla mo,1 ggnente de meno,2
Ch’er collèra è l’affetto3 d’un veleno,
Bbono da fà mmorì ttutti li Stati.4

     Ir quale er monno5 s’è scuperto pieno
De funtane e de pozzi avvelenati
Da sti servi de Ddio nostr’avocati
Pe’ bbuggiàracce a tutti a ccel zereno.6

     Io perantro7 papeggio,8 e ssò rregazzo
De fregammene9 assai; ché ppe’ sta strada
Lòro, per dio, nun mé la fanno un c.... .

     A mmé nun me s’inzeggna sto latino.
Sull’acqua pònno fà cquanto j’aggrada,
Purché nun zia10 d’avvelenamme er vino.

17 agosto 1835

̀


  1. Corre ora la voce.
  2. Niente di meno.
  3. L’effetto.
  4. [Che maraviglia che il popolino credesse a tali fandonie, quando il Giornale, ufficiale, del Regno delle Due Sicilie stampava che la malattia era stata “portata in Rodi da qualche mano fraudolenta nascosta nelle tenebre,„ e il Diario di Roma, ufficiale anch' esso, ripeteva queste sciocche parole in un Supplimento al num. 83 del 1836? L'anno dopo, scoppiato il colera anche in Roma, la sera del 14 agosto “un Kausel, maestro di lingua inglese, alle falde orientali del Campidoglio fu massacrato da una turba di popolaccio, che sulla stupida indicazione di una femminuccia lo credette un avvelenatore.„ Coppi, Annali d'Italia, tom. VIII, pag. 349.]
  5. Vale a dire che il mondo.
  6. Per rovinarci tutti come va.
  7. Peraltro.
  8. Faccio come fa il Papa, [Gregorio VI, che, come ho già avvertito molte volte, aveva fama di gran Bevitore.]
  9. Di ridermene.