Pagina:Sonetti romaneschi VI.djvu/245


Sonetti del 1833 235


LO SCÓRTICO1

     Dichi2 quer che jje3 pare chi ggoverna,
A mmé mme piasce de fr..à, ccompare;
E le p...... me so’ ttante4 care,
Che le vado a scavà cco la lenterna.5

     Nun fr...no l’uscelli all’ari’esterna?
Nun fr...no li pessci in fonn’ar mare?
Dunque io vojjo fr..à cquanto mé pare,
E ffr...mme6 si mmai7 la vit’eterna.

     Mentre ch’Iddio m’ha ddato sto negozzio,
È sseggno che jj’aggarba in concrusione
Ch’io lo maneggi e nnun lo tienghi in ozzio.

     Ma ssii8 peccato: ebbè? sso’9 ssempre leste10
’Na bbona confessione e ccummuggnone11
Pe’ ffà ppasce co’ Ddio tutte le feste.


20 ottobre 1833.


  1. “L’atto carnale„, vocabolo la cui etimologia deve forse cercarsi in scortum.
  2. Dica.
  3. Gli.
  4. Mi son tanto. I Romaneschi accordano la preposizione [gli avverbi tanto e troppo] col genere e col numero del nome. [Ma non sempre, come per troppo il Belli afferma anche nella nota 2 del sonetto: L’abbozzà ecc., 3 ott. 35. Un’eccezione che non è la sola, può vedersi anche in questo volume nell’undicesimo verso del sonetto: Er pane ecc., 6 dic, 44]
  5. Lanterna. Il nostro Romanesco non durerà la fatica di Diogene.
  6. Fregarmi.
  7. Se mai: quand’anche si voglia.
  8. Sia.
  9. Sono.
  10. [Pronte.]
  11. Comunione.