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12 Sonetti del 1830

ER ROMITO.

     “Quanno te lo dich’io, càchete er core,„1
Me diceva ier l’antro un bon romito;
“In sto monnaccio iniquo e ppeccatore,
Nun ze trova più un parmo de pulito.

     Co’ ttre sguartrine2 io fascevo l’amore
E je servivo a ttutte de marito;
E ppe’ un oste, uno sbirro e un decrotore3
Ste porche tutt’e ttre mm’hanno tradito.

     Ma io ppe’ ffà vvedé cche mmé ne caco,
Tutte le sere vado all’osteria,
E ffo le passatelle,4 e mm’imbriaco.

     E ssi la tentazzione m’aripia,5
Mé lo cuscio pe’ ddio cór filo e ll’aco,
Quant’è vvero la Vergine Mmaria.„

15 febbraio 1830.

  1. Sottointendi: piuttosto che non crederlo; cioè: “devi crederlo per forza, a mal tuo grado.„
  2. Donnucole.
  3. Décrotteur.
  4. [“È questo un triste giuoco, o per dir meglio, un’usanza crapulona della plebe romana, che viene spesso funestata da risse sanguinose, da ferimenti e da omicidi. La passatella ha luogo per solito nelle bettole più triviali della città e delle campagne suburbane fra qualche brigatella di popolani, e procede in tal modo. La brigata ordina all’oste di portare in tavola quella data quantità di vino che si desidera, e ciascuno degli amici paga la sua tangente per il costo del vino stesso. In seguito si fa ciò che col linguaggio del volgo dicesi la conta, ossia si elegge a sorte colui che deve scegliere il così detto padrone. Quegli che fu favorito dalla conta, nomina chi debba essere tra i bevitori l’accennato padrone. Eletto questo, egli diviene l’arbitro di far bere o no chi a lui piaccia, considerandosi come padrone assoluto di tutto il vino. Si presenta quindi alcuno dei bevitori che dopo aver ricolmo l’unico bicchiere che sta sul desco (dovendosi bere ad un sol nappo e ingoiarlo tutto d’un fiato!) domanda al padrone di poter vuotare il bicchiere. Se al medesimo piace di farlo bere, risponde al richiedente in modo affermativo; altrimenti no; e può ancora ordinare che, in luogo per esempio di Tizio che è venuto a chiedere il permesso e che tiene il nappo in mano, il vino sia tracannato da Caio. Entrando nelle regole di questo galateo bettoliero di obbedire ciecamente e senza repliche od osservazioni a quanto vien comandato dal padrone, colui cui fu negato il bicchiere, lo lascia subito senza aggiunger motto e lo passa a chi è destinato. Terminato il primo bicchiere, si ripete lo stesso giuoco col secondo, quindi col terzo e così via dicendo. Coloro ai quali fu proibito dal padrone di bere, tornano di nuovo a implorare da lui la licenza di poter bere, finchè l’ottengono, e in tal caso il giuoco termina bene. Molte volte però accade che il padrone, o per malignità, o per ischerzo, o per qualsivoglia altro motivo, nega sempre ad alcuni l’implorato nappo; ed allora costoro che rimasero a bocca asciutta, dopo aver pagato la loro tangente per il vino consumato dagli altri, incominciano querele, recriminazioni e liti che finiscono bene spesso a coltellate: ed il giuoco principiato fra l’amichevole allegrezza popolare si chiude nel modo più tragico. Questa stupida gozzoviglia deriva forse da un uso osservato frequentemente dagli antichi ne’ loro banchetti. Al principiare del banchetto si eleggeva a sorte, mediante i dadi, un ministro del convito, o re del vino. (Cfr. Horat. Od., X, 4; — Cic. De Senect., XIV.) Costui stabiliva le leggi colle quali il medesimo doveva procedere, e quando, quante volte ed in che quantità si dovesse bere dai commensali. Questo re del convito, a quanto apparisce da Orazio, si chiamava con un termine tecnico Taliarco (Od., I, 8). Non sappiamo se gli antichi taliarchi fossero alcuna fiata sì indelicati o maligni, come i presenti padroni delle passatelle romane, da negar sempre a qualche convitato la licenza di poter bere. Sebbene come gli attuali padroni il taliarco fosse pienamente arbitro nel suo magistero che si chiamava regnum vini, pure non credo che escludesse pertinacemente alcuno dei convitati dalle libazioni della mensa. Qualora ciò fosse accaduto, non mi recherebbe meraviglia che anche presso gli antichi da questo brutto scherzo nascesse di quando in quando qualche fatto tragico, come avviene oggidì nelle passatelle....„ Luigi Dubino, Elenco di alcuni costumi, usi e detti romani, de- rivati dagli antichi; Roma, 1875; pag 61-64. — Sul principio del secolo, un certo Ciampoli descrisse la Passatella in trenta ottave, un po’ italiane e un po’ romanesche, le quali, in punto forma, sono una vera birbonata: il che però non ha impedito che diventassero famose. Le ha pubblicate recentemente lo Zanazzo, (Roma, 1886). Ma, quantunque egli le abbia anche ritoccate, c’è rimasti de’ versi come questo della prima ottava: Che vve pensavio de me superchiane? — Sullo stesso soggetto io posseggo un’altra porcheria inedita in trentatrè ottave, d’ignoto autore, e che comincia cosi: Bon giorno, eimbè, se pò sapé che fate, Che state come scimmie sbigottite?]
  5. Mi ripiglia.