Pagina:Sonetti romaneschi V.djvu/158

148 Sonetti del 1838

possa.      4 Essere.      5 Se.      6 Signori paìni. Ogni cittadino del mezzo ceto è un paìno.      7 Insegnerà.      8 A rompergli.      9 Anche l’ano è a Roma detto per decenza servizio.


ER RITRATTO DER ZOR FILIPPO.1

     N’ho vviste in vita mia de cose bbelle,
Ma ccom’e cquesta no, pe’ bbio sagrato!
Sto quadro de pittura diseggnato
Nu’ lo farìa nemmanco Raffaelle.

     L’occhi, er naso, la tinta de la pelle,
Er modo de guardà cquann’è inciurmato2...
Che sserve via, senza tante storielle
È er zor Filippo Zzampi spiccicato.3

     So cche ss’io fussi un ladro, Iddio ne scampi,
Ne l’entrà ddrento e in ner vedé cquer coso,
Direbbe:4 “Oh ddio! c’è er zor Filippo Zzampi.„

     Perché, inzomma, la mojje ch’è la mojje,
Spesso spesso, credennolo lo spóso,5
Je va a ddà bbasci indove cojje cojje.

26 maggio 1838.

  1. Opera del veneto Pietro Paoletti. [Filippo Zampi era un amico del Belli, e dal sonetto: A la sora Tèta ecc., 23 sett. 38, pare che fosse ispettore delle truppe pontificie. Anche dall’undecimo verso del sonetto presente si capisce che lo Zampi doveva aver che fare col ministero che sotto il Governo pontificio, molto correttamente, si chiamava delle armi.]
  2. [Accigliato.]
  3. [In persona, proprio lui, ecc. Cfr. la nota 2 del sonetto: La perpetuvella ecc. (2), 19 giugno 37.]
  4. Direi.
  5. Spóso, pronunciato con le due o chiuse.