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Sonetti del 1835 341



LA LUSCERNA.

2.

     Rïecco1 er lume ch’aripiaggne er morto!2
Eppuro3 è ojjo vecchio, è ojjo fino:
Ce n’è ito un quartuccio da un carlino;4
E da quann’arde5 nun pò èsse6 scòrto.7

     Come diavolo mai! pare un distìno.
Uhm! sarà ll’aria ummida dell’orto;...
Eh sse8 smorza sicuro: oh ddajje9 torto:
Nun vedete? È ffinito lo stuppino.10

     Che ffijjaccia ch’ho io! manco è ccapasce
D’aggiustà ddu’ bboccajje!11 eh? sse ne pònno
Sentì de peggio? Aló,12 cqua la bbammasce.13

     E da stasera impoi, ggià vve l’ho ddetto,
Vojjo un lume de ppiù ffin che sto ar monno,
E una torcia de meno ar cataletto.

1 ottobre 1835.

  1. Ecco nuovamente.
  2. Che ripiange il morto: che langue [di nuovo].
  3. Eppure.
  4. [Quattro quartucci formavano una foglietta, cioè poco più di mezzo litro; il carlino equivaleva a sette baiocchi e mezzo, cioè circa quaranta centesimi.]
  5. Da quando arde.
  6. Non può essere.
  7. Scórto, pronunciato con entrambi gli o chiusi, vale: “finito, consumato.„
  8. Si.
  9. Dàgli.
  10. Stoppino, lucignolo.
  11. Due bocchettiFonte/commento: Sonetti romaneschi/Correzioni e Aggiunte. [Due beccucci.]
  12. Animo, presto, andiamo. È l’allons dei Francesi.
  13. Qua a me la bambagia.