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Sonetti del 1835 225

Carne allesso; e il giudice, rivestito insieme della prerogativa di testimonio, riprende: Riportatelo via, ché nun è esso; ovvero: Lassatelo cqui, ch’è esso, secondochè il riclamo era bene o male applicato. Nel primo caso, il povero deluso ritorna al suo posto in seno al giudice per subirvi nuove percosse: nel secondo vi subentra invece il reo convinto, e si ripetono in quella piccola società colpe, accuse e condanne. Or noi, supposta un’ingiuria, ed elevato il dialogo o più alta significazione, chiederemo al lettore, per moralità di questi versi, dove dovrebbe cercarsi l’orecchio da menare a penitenza, se cioè sul Montmartre o presso il Colle Vaticano.


LO SCORDARELLO.

     Di’, tt’aricordi ggnente, Fidirico,
Chi era quello ch’er mastro de scola,
Disce ch’a ttempi sui fesce sciriòla1
Ar Papa e lo trattò ccome nimmico?

     L’ho ssu la punta de la lingua dico,
Eppuro... Aspetta un po’, ffiniva in ola.
Andrea? no Andrea; ’na spesce de Nicola
Co’ un antro nome de casato antico.

     Cristo! sarà ddu’ ora che cce penzo!
Zitto, zitto ché vviè: Cola da... Cc....!
L’ho ttrovo, eccolo cqua: Ccola d’Arienzo.

     Sto Cola era ’na bbirba bbuggiarossa:
Co’ ttutto questo, io sciannerebbe a sguazzo2
Ch’ariarzassi3 la testa da la fossa.

4 giugno 1835.c



  1. Tradì il, ecc. [Ciriòla: piccola anguilla, che con lo sgusciare facilmente di mano ha suggerito ai Romaneschi l’immagine dell’inganno e del tradimento.]
  2. [Ci anderei a sguazzo]: godrei, nuoterei nel piacere.
  3. Che rialzasse.