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434 Sonetti del 1834


chi tentasse di fare offesa alla Duchessa. Il bambino, li per li, non sapendo a chi darlo, fu portato al brefotrofio di S. Spirito, dove venne battezzato col nome di Lorenzo dal canonico Magin commissario del pio luogo. Dopo pochi giorni, il bambino venne ritirato da Luigi Margutti marito di Caterina che lo allevò e lo chiamò Luigi; da ultimo gli fu fatto assumere il nome di Filippo Montani. Sino ai tre anni il Marehal pensò al mantenimento dell’infante, poi egli fu costretto a partire, ed allora lo mantenne la madre, pagando sette scudi mensili; negli ultimi tempi don Salvatore passò al fratello una pensione di dieci scudi mensili, coi quali don Lorenzo doveva vivere, perchè la sua professione di pittore (aveva studiato disegno) non poteva ancora procacciargli la sussistenza. Il fatto era noto a parecchi, fra’ quali al principe di Piombino don Luigi Boncompagni. Questi, dolente che una si pingue eredità finisse in casa Torlonia, già tanto arricchita coi beni della nobiltà romana, pensò di suscitare una causa della quale egli avrebbe fatto le spese. Pertanto affidò le ragioni di don Lorenzo ai valenti avvocati Cavi e Marini, facendo loro reclamare la ricognizione di don Lorenzo in figlio legittimo di donna Geltrude Conti e don Francesco duca Sforza-Cesarini, che nel 1807, epoca della nascita, era vivente e convivente con la moglie. Il Torlonia duca di Bracciano fu difeso dal famoso giureconsulto Armellini, dagli avvocati Di Pietro e Combi, e dai procuratori Balducci e Pagnoncelli. Pur troppo mezzo secolo fa esisteva già il collegio della difesa! Prima a deporre fu la madre contro il proprio figlio, dichiarandosi adultera! Confermarono la. sua deposizione amici, nobili, cavalieri; poi la confermarono tutti i suoi domestici. Ma non basta; a corroborarla volle dimostrare che suo marito il duca don Francesco era anche esso adultero, diviso da lei di letto e in braccio a due sorelle, Laura e Chiara Imperiali, due drude che confej’marono in capite jproprio V accusa della moglie. Non basta ancora; il proprio cognato, Antonio Morelli, confermò quanto asseriva la Duchessa. E il tribunale civile, presieduto da monsignor Monari, sentenziò contro il giovane don Lorenzo, in favore di Torlonia che, si disse allora, e lo ripetè trent’anni dopo monsignor Liverani, comperò a furia d’oro la sentenza del tribunale. Ma il principe di Piombino, uomo della vecchia razza, non si dette per vinto; appellò quindi al supremo tribunale della Rota Romana, presieduto da monsignor Avella. Due prove, che riteneva decisive, produsse Torlonia, o meglio la vecchia donna Geltrude: una deposizione del Marchal, tuttora vivente, e la deposizione giurata del suo confessore Pier Luigi, carmelitano scalzo del