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Sonetti del 1834 369


ER RILASSCIO.

     Pe’ avé ssorte, bbisoggna èsse bbirbanti
Pe’ cquelli soli nun ce sò mmai pene;
Ma ariveriti e cco’ le mano piene
Se ne vanno groriosi e ttrïonfanti.

     Specchiamose1 in st’arètichi2 furfanti:
L’aveveno ingabbiati3 tanto bbene,
E mmo invesce de metteli4 in catene
L’arimanneno5 a casa tutti quanti.6

     Io noto er Papa,7 io. Doppo avé ttanto
Fatto er foco dall’occhi, all’atto pratico
S’è ccalato le braghe come un zanto.

     Come se8 spiega mò er cavajjeratico
Dato a la sbirrarìa9 che pportò er vanto
D’arrestalli? Fu un estro mattamatico.

11 giugno 1834

  1. Specchiamoci.
  2. In questi eretici. Sono i liberali, perchè avversi a un sistema sostenuto da un Re-Papa.
  3. Imprigionati.
  4. Di metterli.
  5. Li rimandano.
  6. Il nostro popolano va per le generali, e secondochè una confusa fama lo istruisce de’ fatti correnti. Noi però, facendoci a comentarlo, diciamo quegli eretici rilasciati in difetto di colpa dopo un rigido processo e una più rigida prigionia di un anno, essere un Guardabassi, un Cesarei de Leoni, un Menicucci e un Bartolucci, imputati di aver suscitato la sommossa popolare perugina del giorno... [8] maggio 1833, quandochè non fu quella originata che dalla imprudenza del Governo che ordinò e fece eseguire sul bel meriggio una perquisizione politica nella farmacia di Giuseppe Tei, vecchio onestissimo e adorato dal popolo per la sua carità. Le armi, onde il popolo irritato si valse in quella occasione, furono le sedie delle er-baiuole di piazza, ciocchè esclude qualunque idea di premeditazione, quando ancora non la escludesse il repentino cenno del Governo. [Ecco come racconta il fatto Luigi Bonazzi, nella citata Storia di Perugia (vol. II, pag. 580-84); e questo racconto, importante e curioso per tanti rispetti, servirà anche di opportuno commento al sonetto: U invito der Papa, 16 giugno 34, il quale darebbe altrimenti un’idea sfavorevole circa il carattere e la condotta del Guardabassi: "Sul mezzogiorno del di 8 maggio 1833, l’inviso giudice processante Luigi Fanelli col suo scriba e aiutante Massimiliano Valentini, seguiti da molti carabinieri, centurioni e poliziotti che si sparsero per tutta la Piazza Piccola e per altre prossime contrade, entrarono nella farmacia Tei, lasciando guardie alla porta affinchè ninno entrasse od uscisse. Alla vista di quel minaccioso apparato, tutti quei cittadini che erano in piazza, e gli altri molti che sopraggiunsero, si appressarono attoniti, chi con lento passo e chi correndo, alla assediata spezieria, per conoscere di che si trattasse. Saputolo facilmente, si formarono capannelli, un sordo mormorio si sparse per tutta la piazza, i capannelli si aggrupparono; e quando dalle guardie fu respinta la moglie del Tei che voleva entrare, surse un urlo universale, e una irruenta fiumana di popolo, abbattendo ogni ostacolo e non frenata che dalla sua stessa grandezza, invase le stanze del farmacista. Al sopraggiungere di quella piena, i processanti, non compito l’atto, scompaiono per una porta segreta che metteva al Campo di Battaglia, lasciando tutte le carte in potere dei primi accorsi, che nel loro delirio ne fecero scempio con grave danno del proprietario. Il proprietario sulla soglia della bottega respingeva con esortazioni e preghiere un’altra onda di popolo che faceva ressa per entrare, e il popolo respinto, congiunto a quello che usciva furente dalla bottega, senza altre armi che i pugni e le sedie delle rivendugliole, si diede a percuotere di santa ragiono tutti i carabinieri, tutti i centurioni in cui s’imbatteva, tutti i poliziotti travestiti che poteva riconoscere; quarid’ecco arrivare ultimo al tafferuglio il Sansone dei popolani, Domenico Lupattelli, il futuro eroico compagno dei fratelli Bandiera.... Ad ognuno di quei potenti rovescioni che senza impugnare una mascella d’asino a dritta e a manca egli mena, stramazzano a terra più eroi; lo scompiglio è generale, e la folla, contenta del fatto suo, si dilegua come per incanto, lasciando sul lastrico della vasta piazza rottami di sedie, berretti schiacciati, coccarde bianche e gialle, e chiavesignati bottoni. Questa allegrezza fu pagata ben cara da molti; e il Governo nel cercare la sua vendetta badò non solo alla materiale, ma anche alla morale complicità dei liberali. Quindi furono arrestati e condotti a Civita Castellana, Domenico e Tancredi Bettini, Giuseppe Stinchetta, Silvestro Lillini che mori in carcere, Nazzareno Anelli, Vincenzo Stornelli, mandati poi in America; Domenico Lupattelli, che esiliato dopo cinque anni di carcere, si ritirò a S. Marino, indi a Corfù. Furono arrestati e poi graziati Francesco Donini, Mariotto Fantusati, Filippo Burelli e Giovanni Piazza; arrestati, e poi lasciati in libertà, l’ingegnere Luigi Menicucci e l’impiegato Volfango Franchi, arrestato ed esiliato Luigi Bartolucci. Avidamente cercati, riuscirono a porsi in salvo Pio Tancioni a Londra, Pio Massoni a Napoli, Giuseppe Candolfini a Parigi. Ma fra le vittime politiche ve ne ha una, che merita speciale attenzione per la sua stravaganza. Nel limite che divide un lato del Corso dalla Piazza S. Isidoro, un tal Santin Bellino, con una cera fra lo stupido ed il cór contento, vendeva le castagne, lodando a gran voce la merce sua. Simpatizzando egli coi liberali, più per la famigliarità di cui lo degnavano che per cognizione della loro causa, nell’invitare i compratori lanciava qualche frizzo ostile al Governo, sul gusto di quel Veneziano che vendendo le patate, gridava: Neranze de Viena; ma delle sue facezie nessuna è rammentata, perchè nessuna aveva un grano di sale. O che egli prendesse parte al tumulto, o che la polizia volesse vendicarsi dei suoi frizzi, il fatto è ch’egli fu imprigionato e condotto a Civita Castellana. Vi era da credere che per le abitudini della sua povertà gli fosse men dura la prigionia. Ma non fu cosi. Dacchè il povero popolano si trovò sotto alle oscure volte e fra le umide pareti del carcere, e non senti più insultargli il viso la secca tramontana del paese nativo, e il suo cibo durante il giorno non fu più un marrone ch’egli prendeva come pillola con un bicchiere di vino ad ogni due ore, e non vide più l’ampia platea del suo teatro diurno, e più non udì quelle risa di scherno ch’egli prendeva per applausi; dacchè si trovò elevato al grado di cospiratore tra facce fiere e ciglia aggrottate, il povero Santino non fu più quello; e colto da una malattia nervosa, a cui non era estranea la nostalgia, Santin Bellino morì, facendo scrivere anche questo fra i trionfi della Santa Sede. — Benchè in Perugia il partito liberale fosse assai numeroso, rimaneva tuttavia acefalo, ove fosse esule o spento il Guardabassi. E il Governo papale che sei sapeva, lo rese responsabile del tumulto della spezieria Tei, e come tale lo fece arrestare in Ancona per mezzo del generale Cubières. Tradotto a Macerata, indi a Foligno, indi a Civita Castellana, quivi, dopo cinque mesi di durissima prigionia, e di dubbi angosciosi, subì il primo esame dal perfido giudice incapace Moschini, che dopo avere aggiunto ai patimenti fisici dell’inquisito una infinità di torture morali, chiuse l’infame processo dichiarando il Guardabassi esser capo di setta politica allo scopo di rovesciare il Governo jìontificio, coadiuvato da un’estera potenza, con reclutamento di gente assoldata, e perciò doversi condannare alla morte esemplare. E così sentenziato lo mandò a Roma, dove chiuso in Castel S. Angelo nella famosa prigione detta la Cagliostra, vi sarebbe certamente morto, affranto ed estenuato com’era, se non gli veniva commutata in quella AelV Angelo. A prima giunta recherebbe quasi meraviglia come il Guardabassi in faccia alla morte e a così orribile prigionia non accettasse l’esilio, che gli veniva offerto ed aperto da tutte parti. Ma, se ben si guarda, la sua maniera di condursi fu accorta e prudente, mentre era oltremodo coraggiosa. Oltrechè egli amava il suo paese, il suo tetto paterno e i suoi campi, e gli incresceva di allontanarsene, egli temeva per la sua famiglia e pei suoi amici politici le triste conseguenze d’una sentenza in contumacia, e oltre a ciò mentre sembrava agire come se fosse un suddito obbediente che cercasse di purgarsi dalla calunnia, egli vagtieggiava un santo ed altissimo scopo, quello di fare il processo ai processanti: e lo raggiunse. Per l’abilissima difesa del non ancora scaduto Pasqualoni, il quale pose a nudo tutte le macchinazioni, le trame, le menzogne, le nefandità del processo, il Guardabassi fu trovato non colpevole; e se è vero, come vuoisi, che il buon papa Gregorio vi sostituisse la formola non trovato coljyevole, ciò non avvenne al certo per virtù dello Spirito Santo. Intanto l’opinione pubblica s’impossessò di tale argomento per mezzo del giornalismo europeo; di questo processo si occuparono con vivo interesse a favore del perseguitato i lordi Palmerston, Clifford, Brougham, Seymour, l’ambasciatore austriaco Liitzow, il maresciallo Soult, lo storico Mignet, l’artista Catal, e fin la Belgioioso; la memoria diretta dal nostro concittadino al cardinal Pacca fu mandata a tutto il corpo diplomatico estero; e lo scredito che ne venne al Governo pontificio giovò non poco ai nostri fratelli d’infortunio, e alla stessa causa d’Italia. Dopo di che potè finalmente il bersagliato da tante sventure restituirsi alle dolci cure della famiglia, aspettando giorni più propizi alla patria. ]
  7. [Io mi maraviglio del Papa.]
  8. Si.
  9. Una croce cavalleresca fu decretata al birro Rossi, che prese in Ancona Guardabassi, andato colà per condurre al battello-a- vapore di Corfù il figlio di un inglese, che il padre aveva già lasciato in di lui casa a Perugia.