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Sonetti del 1833 107


MOSCONI, REGAZZI.1

     Antro2 s’ar Papa io je volevo bbene!
Io so cche in de l’affare der trentuno,
Quann’era all’orlo d’arrestà3 a ddiggiuno,
J’averìa4 dato er zangue in de le vene.

     Ma da quer temp’in poi fa ttante sscene
Sto sor mossciarellaro der bell’uno,5
Ch’io (e sta cosa nun la dì a ggnisuno6)
Me ne frego de lui ppiù cche dde mene.7

     Viè a Rroma dar bell’uno e ddar bèr-dua8
A ffà er cazzaccio?!9 Poteva, pe’ ccristo,
Stà a vvenne10 le fusajje a ccasa sua.

     De tanti ggiacubbini, uno impiccato,
Uno ch’è uno, nun ze m’è mmai visto!
È un Papa questo che ppòzzi èsse11 amato?

15 novembre 1833.

  1. Alcuni uomini, quasi tutti del Friuli, vanno per Roma gridando: Moscia moscia: oh fusaglia dolce: mosconi, ragazzi. Sono i così detti mosciarellari [o fusagliari], che vendono castagne infornate e poi bollite [mosciarelle], lupini [fusaglia], e mosconi verdi... [Cioè quella specie di scarafaggi verdi, più grossi delle cantaridi, i quali si trovano ordinariamente su i fiori di sambuco. Nell’Umbria si chiamano cantalene, e i ragazzi li legano con un filo a uno zampino, e si divertono a farli volare. Perciò i fusagliari, fino a quaranta o cinquant’anni fa, li andavano vendendo ai ragazzi di Roma. Ma oggi questa piccola industria è affatto cessata, e sono anche rarissimi quelli che la ricordano. Il popolano, dunque, sanfedista, che parla in questo sonetto, cominciando dalle parole del titolo vuol dire che Gregorio XVI, essendo quasi del Friuli, s’era mostrato un fusagliaro anche lui, cioè un dappoco, un igno- rante. S’intende però, che oper conto dell’autore tutto il discorso è ironico.]
  2. Altro.
  3. Di restare.
  4. Gli avrei.
  5. Belluno, patria di S. S.
  6. Non la dire a nessuno.
  7. Di me.
  8. Bel-due.
  9. A fare lo sciocco.
  10. Stare a vendere.
  11. Possa essere.