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Prefazione | cclxv |
tura antiquata del dialetto romanesco, affinchè anche i non romani potessero più facilmente comprenderli;„ ma la toppa è peggio del rotto. Infatti, se per dicitura egli intende quel che realmente significa, io dico che ha fatto malissimo a seguire, anche solo in parte, la dicitura antiquata, servendosi, per esempio, a tutto pasto dell’antipaticissimo ne eufonico (mene, tene, tune, giune, quane, none, fané, riuscìne, ecc.), che andava già cadendo in disuso fin da’ primi tempi del Belli, il quale non l’adopra che assai di rado. (Cfr. in questo volume la nota 5 a pag. 83-84). Se poi, com’è più probabile, il Marini chiama dicitura antiquata quelle forme particolari che vivono solamente tra ’l popolo, io dico che ha fatto malissimo a scartarle, perchè esse appunto danno fisonomia e carattere speciale al dialetto, e non è lecito svisare un idioma per comodo di quelli che non l’intendono. Se non l’intendono, lo studino: non c’è altro rimedio. Del resto io non vedo che difficoltà avrebbero incontrato i non romani a intendere: addrittura, lezzione, cariera, roppe, fussi, tutt’in un tratto, muntura, forme proprie e vive del romanesco, invece di quelle corrispondenti che il Marini adopra ne’ primi quattro sonetti: addirittura, lezione, carriera, rompe, fossi, tutt’in un tempo, montura. Ciò è tanto vero, che il Marini stesso, due altre volte che gli fa comodo per la misura del verso, scrive addrittura (pag. 65 e 68); ma un’altra volta, per lo stesso motivo, torna a scrivere addirittura (62). Né questa è la sola contradizione in cui cade.
Per comodo de’ non romani egli avrebbe potuto abbandonare, come ha fatto il Ferretti, alcune della forme ortografiche usate dal Belli, per esempio l’sc per c, la z per s, e il frequente raddoppiamento delle consonanti iniziali; quantunque l’ortografia belliana, ch’io seguii scrupolosamente nell’edizione de’ Duecento Sonetti, e che molti non approvano, sia stata giudicata da uno de’ pri-