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cclxiv Prefazione


di poter trattare il povero dialetto, come i più han trattato e trattano la lingua fiorentina, cioè come una cosa da potersi rimpastare a capriccio, senza avvertire che neppure l’autorità di Dante Alighieri è bastata per mutare il Cosa fatta capo ha in Capo ha cosa fatta.1

“Sarebbe,„ ha detto un valentuomo, il professore Ferdinando Santini, "sarebbe il cómpito più facile del mondo (laddove è difficilissimo) lo scrivere in dialetto, quando ne fosse lecita ogni trasposizione di parole, ogni sorta di aggiunti, d’epiteti, d’accessòri ed ogni piegamento di costrutto; e il vernacolo riponesse tutto il suo carattere nello storpiare delle parole, e nelle uscite da trivio. Il popolo va sempre, e in tutto, diritto a fil di logica, e fa talora qualche trasposizione, ma là solo dove la forza del suo sentire lo richiegga, non dove la rima o il rito e la convenzione rettorica lo voglia e lo conceda. Al primo apparire di questi difetti, il popolo col suo vernacolo sparisce, e vien fuori la meschina rachitica figura dell’umanista, in tanto men sopportabile, in quanto che non parla in quel caso il linguaggio di nessuno.„

Ecco qui, per esempio, il dottor Augusto Marini, che ha pubblicato Cento Sonetti in vernacolo romanesco,2 e che avrebbe eccellenti qualità, specialmente nella satira politica; ma per sua e nostra disgrazia, egli scrive una lingua che, per lo più, non è né il romanesco né l’italiano, ma un’informe mescolanza dell’uno e dell’altro, così nelle parole e nelle frasi, come nella sintassi.

È vero che il Marini ci avverte che “in questi sonetti non ha voluto seguire in tutto e per tutto la dici-

  1.      Gridò: Ricordera’ti anche del Mosca,
    Che dissi, lasso!, Capo ha cosa fatta
    Che fu il mal seme per la gente tosca.
    Inf. xxviii.

    Si vedano a questo proposito le giuste osservazioni che fa lo Zendrini, nel suo Discorso Della lingua italiana (Palermo, 1877).

  2. Roma, E. Ferino editore, 1877.