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Prefazione cclxiii
Cater. C’è ch’er riso se scòce.1

D. G.   E che m’importa?
Cater. M’importa a me. — Accidenti a la duttrina!

Lo scopo del poemetto a molti è parso affatto inutile, perchè, dicono, combatte un morto; ad altri invece dannoso, perchè scalza la fede. Nella contradizione di questi opposti giudizi, l’autore trova giustificata l’opera sua, che a me pare non solo bella, ma anche buona e utile. Se molti se ne sono scandalizzati, è segno che il preteso morto è più vivo di prima; e a queste anime timide che si scandalizzano della verità, che è Dio stesso, e le antepongono la pia impostura, che non può esser che il male, il Ferretti risponderà con l’epigramma di Luciano Montaspro, dove c’è insieme un rimpianto e un rimprovero, entrambi giustissimi:

     La fede è morta! (dice don Clemente);
Si corre all’ateismo di galoppo! —
O preti, è vero! non crediam più niente,
Perchè voleste farci creder troppo.

Ma il pregio principale del nuovo poeta sta, secondo me, nella forma. Egli ha studiato a fondo e conosce perfettamente il suo dialetto, il quale, come ogni altro, per diventar lingua scritta non ha bisogno che d’esser messo in carta; quando per lingua scritta non s’intenda una cosa che, col passare dalle labbra alla penna, abbia da trasformarsi. Essendo dunque una lingua, il dialetto ha parole e locuzioni e leggi grammaticali proprie, le quali, finché durano nell’uso, non si possono violare o alterare impunemente. Dopo il Belli, il Ferretti è il solo scrittore romanesco che abbia inteso bene questa verità, e siasi proposto di conformarvisi a puntino. Tutti gli altri (eccettuato il Chiappini, il quale però, per soverchia modestia, si ostina a rimanere inedito) han creduto

  1. Si scòce: passa di cottura; s’impancòtta, dicono nelle Marche o nell’Umbria; fa la colla, diventa una bozzima, fa bozzimone, in Toscana.