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ccxxxvi Prefazione

tutti i sonetti, non rifiutati, del grande poeta. Solo in alcuni, e particolarmente di quelli che trattano soggetti politici religiosi (si vedano, per esempio, i due famosissimi: Er Ziggnore ecc., 3 ott. 31, e Li Soprani ecc., 21 genn. 32), il concetto è troppo studiato o troppo alto, e ci si sente un poco la personalità dell’autore. Né deve recar maraviglia che, ciò non ostante, parecchi di questi sonetti fossero e siano tuttora più universalmente famosi e ammirati; perchè, prima di tutto, il difetto da me notato si trova in pochi, e poi è ben naturale che massime ai non romani, paressero più belli questi sonetti in cui il poeta si eleva, qualche volta anche per conto proprio, a un ordine d’idee comuni e ben accette a tutta Italia, che non quegli altri in cui ritrae fedelmente la vita, il sentire e il pensare speciale della plebe romana, e che non offrono un immediato raffronto col vero, se non a chi abbia ben conosciuto quella plebe. Il difetto dunque giovò, anziché nuocere, alla fama del poeta; e, se ne mancassero altre, sarebbe anche una prova incontrastabile che, quand’egli concepiva e scriveva i sonetti politici e religiosi, era tutt’altro che clericale.

L’elezione che il Belli fece del sonetto e della forma dialogica per attuare il suo vasto disegno, non fu di certo fatta a caso. Scelse il sonetto, perchè esso è il più adatto per allogarvi piccole scene, potendo anche allungarsi con la comoda coda, se la scena si allunghi. Scelse la forma dialogica, perchè la richiedeva il soggetto stesso. Il Romano, come tutti i meridionali, non cerca il pensiero nella solitudine e nel silenzio, ma nella compagnia e nella conversazione: e se non può parlar co’ suoi simili, parla col cane, col gatto, con l’asino, col canarino, col tempo cattivo, co’ santi,

    che paiono sicuramente rifiutati dall’autore. Di tutti però darò l’elenco in fondo a questo discorso.