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56 | giovanni boccaccio. |
voso accidente della sua cacciata, o fuga che chiamai* si convenga, per la quale, egli e quella e ogni altra cosa abbandonata, incerto di sé medesimo, più anni con diversi amici e signori andò vagando. Ma, come noi dovemo certissimamente credere a quello che Iddio dispone niuna cosa contraria la fortuna potere operare, per la quale, e se forse vi può porre indugio, il tór la possa dal debito fine; avvenne che alcuno per alcuna sua scrittura forse a lui opportuna cercando fra cose di Dante in certi forzieri state fuggite subitamente in luoghi sacri, nel tempo che tumultuosamente la ’ngrata e disordinata plebe gli era, più vaga di preda che di giusta vendetta, corsa alla casa, truovò li detti sette canti stati da Dante composti, gli quali con amirazione, non sappiendo eh’ essi fossero, lesse, e piacendogli sommamente, e con ingegno sottrattigli del luogo dov’ erano, gli portò ad un nostro cittadino, il cui nome fu Dino di raesser Lambertuccio, in quelli tempi famosissimo dicitore per rima in Firenze; e mostrogliele. Gli quali veggendo Dino, uomo d’alto intelletto, non meno che colui che portati gli avea si maravigliò si per lo bello e pulito e ornato stile del dire, si per la profondità .del senso, il quale sotto la bella corteccia delle parole gli pareva sentire nascoso. Per le quali cose agevolmente insieme col portatore di quegli, e si ancora per lo luogo d’onde tratti gli aveva, estimò quelli essere, come erano, opera stata di Dante. E dolendosi quella essere imperfetta rimasa, e che essi non potessero seco presumere a qual fine fosse il termine suo, fra loro diliberarono di sentire dove Dante fosse, e quello che trovato avevano mandargli, acciò che, se possibile fosse, a tanto principio desse lo ’mmaginato fine. E sentendo, dopo alcuna investigazione, lui essere appresso il marchese Moruello, non a lui, ma al marchese scrissero il lor desiderio, e mandaron li sette canti; li quali poi ’1 marchese, uomo assai intendente, ogni altra cosa abbandonata, incerto di sé medesimo, più anni con diversi amici e signori andò vagando. Ma non potè la nimica fortuna al piacer di Dio contrastare. Avvenne adunque che alcun parente da lui, cercando per alcuna scrittura in forzieri, che in luoghi sacri erano stati fuggiti nel tempo che tumultuosamente la ingrata e disordinata plebe gli era, più vaga di preda che di giusta vendetta, corsa alla casa, trovò un quadernuccio, nel quale scritti erano li predetti sette canti, li quali con ammirazione leggendo, né sappiendo che fossero, del luogo ove erano sottrattigli, gli portò a un nostro cittadino, il cui nome fu Dino di messer Lambertuccio, in que’ tempi famosissimo dicitore in rima, e gliel mostrò. Li quali avendo veduto Dino, e meravighatosi si per lo bello e pulito stile, si per la profondità del senso, il quale sotto la ornata corteccia delle parole gli pareva sentire, senza fallo quegli essere opera di Dante immaginò; e dolendosi quella essere rimasa imperfetta, e dopo alcuna investigazione avendo trovato Dante in quel tempo essere appresso il marchese Moruello Malaspina, non a lui, ma al marchese e l’accidente et il desiderio suo scrisse, e mandògli i sette canti. Li quah poiché il marchese, uomo assai intendente, ebbe veduti, e
molto seco lodatigli, gli mostrò a Dante, domandandolo se esso sapea cui