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Io mi sdraio sotto un rovere e guardo svolettare tra le foglie mille insettucci rossoturchini, in amore. Tutta l’aria sul mio capo è piena dei loro brevi svoli. Alcuno cade sfinito, si agguanta al filo d’erba inarcato e drizza le sue antenne, stupefatto. Per il tronco gropposo scende e sale la doppia carovana delle formiche; dall’erba sbalzano sui miei vestiti esili puntolini neri come cicale minutissime. E mi slungo più fondo in questa forte erba fiorita, e sono pieno di dolore e di morte.

Sta quieto. Il cielo è chiaro, come dopo un’acquata. Nel turchino del cielo lo sguardo si riposa calmamente, come nella distesa del mare. Veleggia un cirro bianco tremolando. Gli orli delle foglie contro il sole lameggiano d’argento. Riposa. Il vento che vien da lontano ti porta un buon sogno se tu stai fermo e lentamente t’assopisci. Reclina il capo sulla terra. Ora ti giunge un suono tranquillo di campana. Vicina è la patria.

No, non posso dormire. Le braccia dormono, abbandonate lungo i fianchi, gli occhi dormono; tutto il corpo e l’anima smania verso il ristoro del sonno: ma una, una cosa veglia che nessuna nenia di mamma addormenta e l’acqua che a goccia a goccia fluisce vicina non placa, e il vento non porta via tra i fiori con sè, natura, natura! Una cosa. Non posso dormire. Le stoppie vecchie dell’erba inquietano come questo pensiero che neanche nel sonno mi dà pace ed è insolubile a tutte le buone virtù della terra, ed è duro, e mi tormenta in ogni posto. Non posso dormire. Un disgusto orribile storce le mie guance per tutta questa vita piena di gioia che mi circonda. Che ho commesso io di non potermi fondere dentro quest’ora