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battendo con i loro tacchi di legno, e la donna apre le imposte e chiama il suo figliolo che è ora di scuola.



Usciamo, perchè qui non si può più stare. Andavo nel bosco di Melara. Traversavo i prati e mi godevo del sussurro dei piedi fra l’erba già alta, camminando lentamente, un po’ curvo, a capo scoperto, sotto il sole, come chi va spiando da piccole tracce e piccoli strepiti una cosa che s’allontana cautamente.

Tutte le carnose papilionacee, rosse, gialle, screziate, sono in fiore. Le foglie delle querce s’inturgidiscono di succo, e i ginepri sono più coccole che aghi: coccole verdognole, lisce, fresche come gocce marine. I tronchi dei platani si spellano, e all’annodatura i primi rami sono gonfi di muscoli crespi come braccia di forti creature. L’erba dai prati s’allarga sulla strada maestra.

Dolce principio d’estate in cui tutto è vivo. Io sento d’intorno a me la sicurezza meravigliosa della vita che s’eterna. Cede la primavera benignamente, con piovere di petali sanguinei e bianchi al vento vaporante, mentre i calici ingrossano e s’insolidano e le farfalle rompono il bozzolo filamentoso e le guaine dei nuovi germogli si ripiegano secche e scolorite. Ancora ondula qualche fraschetta gommosa e rossiccia, e avvolta dall’esuberanza dell’erba ancora qualche viola impallidisce negli umidi nascondigli: lievi parole infantili che tornano sulla bocca della donna che ha partorito.


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