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Mi sedetti al tavolino, presi la penna, cominciai a fare scarabocchi sulla carta, e facevo freghi con su scritto il suo nome. Improvvisamente mi spaventai e corsi allo specchio. Guardavo fisso i miei occhi e mi domandavo: — Sono molto lucidi? Ma Vedrani dice che non si può capire dai segni esterni se uno è pazzo. Non sono pazzo. Sta calmo, Scipio. — Guardavo le cose riflesse nello specchio. Le cose riflesse nello specchio — per legge fisica — sono distanti dagli occhi come sono distanti dallo specchio le cose che si riflettono. Cercavo di calcolare se anch’io vedevo così. — Se mi pesto devo sentire dolore. Ma anche i pazzi lo sentono. Come posso avere una prova esterna che io non sono pazzo? — Il tappeto nello specchio faceva un angolo con il tappeto reale. Guardavo per la prima volta, come un bimbo. I lunghi fili rossi, i lunghi fili blu. Corsi in stanza da pranzo; c’era Vanda che lavorava. — Ora parlo. — Ma non potevo. Avevo terrore della mia voce. Giravo su e giù. Se fosse strana, e Vanda mi guardasse spaventata?

— Xe in casa mama? — Ma no, no: avevo domandadato con naturalezza e semplicità. Tornai in camera mia. Mi buttai per terra, tenendomi stretta la testa; la chiamai, due volte, tre volte, quattro volte, cinque volte..., e continuai a dire il suo nome lungamente, lungamente, a bassa voce, sempre più piano. Poi mi misi a ninnare: Din, don, campanon — Tre putele xe sul balcon — Una la fila, l’altra la canta, — L’altra la fa putei de pasta — Una la prega Sior Idio — che ’l ghe mandi un bel mario....

Poi non ricordo più. Mi prese il sopore. Mi rialzai