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Il Piccolo mi accettò a cento corone il mese: orario da mezzogiorno alle sedici, e dalle venti alle tre.

La prima volta che andai a intervistare un’attrice — non ricordo più se era la Bellincioni o la Tina di Lorenzo — pensavo mettendo il pollice nel taglio ascellare del gilè bianco: Rappresentazione d’una novità che non conosco; intervista antr’act; caffè neri; accendo un sigaro; in redazione: è il tocco. Ordino in pacchetto regolare le lunghe cartelle verdognole, le numero: devo scrivere due articoli: la recensione della novità e l’intervista: in un’ora e mezza. (L’intervista potevo scriverla la mattina dopo; ma mi piaceva aumentare il lavoro febbrile). Bene. Che dirò a lei? È bella. E il Piccolo è il giornale più diffuso di Trieste: io, in questo momento, ne sono il critico teatrale.

Una folata d’immagini come al ritorno delle rondini: ero accanto a un bosco autunnale, e soffiava la bora, e le foglie d’oro e di porpora turbinavano intorno a me? Nella mia anima, certo, fu un subbuglio, un accorrere, un saltellio guizzante, come in una vasca di parco quando un bimbo butta una mica di pane. Ma il rosso belletto delle labbra e la polvere d’oro dei capelli di lei mi parodiò; e io ne fui spaventato come guardandomi in uno specchio convesso. Scrissi molto male della commedia che m’era piaciuta, per vendetta, perchè anch’io avevo bisogno di violare la realtà altrui. Ma il direttore si fece portare le cartelle prima che andassero in tipografia, mi chiamò, mi rimproverò aspramente e stracciò l’articolo.

Uscendo di redazione, la prima alba mi faceva male sugli occhi stanchi.