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sando alla preparazione. Tutti si lagnavano della «Patria», la direzione del partito liberale di cui noi eravamo l’ala sinistra; ma prima di decidere un leggero rimprovero a questo o quel nostro uomo rappresentativo, si domandava il permesso alla «Patria». Una sera, in seduta, quando l’i. r. commissario era già andato via — perchè quando c’era lui si davano annoiatamente i resoconti di cassa e si leggeva sorridendo la relazione ufficiale, — si inveì con forte parola contro l’apatia remissiva di Hortis e degli altri deputati. Poi si votò un vibrato ordine del giorno; e, come cosa implicita, il presidente domandava chi volesse venir con lui da Venezian per il nulla osta. Io chiesi timidamente dalle sedie: — Ma perchè domandare il permesso a Venezian? — Tutti rimasero stupiti. S’alzò su un giovanotto dal viso insecchito e mummificato in buchi e angolosità, e sorrise con indulgente compassione fra i denti guasti, salivando abbondante. Poi disse, un po’ tartaglia, ma come chi la dice buona: — Se vedi che ’l mulo ga de magnar ’ncora pagnote! — Si sedette contento, e tutti risero battendo le mani.

Fu quella l’unica volta che pronunziai mezza parola in seduta pubblica. Del resto brontolavo con i pochi altri ingenui intorno a un tavolo-scacchiere progettando ogni sera di formar la «montagna» nel seno stesso della società. Ma non si concluse mai nulla. E sopratutto ascoltavo i discorsi dei maggiori, per imparar di politica, per aver armi contro la zia che disapprovava l’occuparsi d’irredentismo. Parlavano in generale di trucchi da fare alle guardie, dell’ultima schifoseria giallonera dei socialisti, del loro