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bella veciota venesiana me l’insegnò: Nè per torto nè per rason, no state far meter in preson. — Guardo negli occhi il gendarme, strappo, via. Viva la libertà! Io sono italiano.

Neanche mi rincorse. E io, dopo duecento metri di corsa furiosa, rimasi male a vederlo impalato, lontano. Poi riprese la sua marcia cadenzata, toc, tac, in direzione opposta.

Toc, tac: pare che s’avvicini, che sia qua dietro a me, con la sua mano sulla mia spalla. Filai in un portone: nel casotto del portinaio c’è un cranio calvo, assiepato da una corona di capelli fini, di bimbo, curvo su una scarpetta da signora. Esco; mi pianto la berretta più salda in testa, mi ravvolgo nella mia mantella e cammino picchiando con forza il lastrico come se tra esso e i miei scarponi sia qualche cosa che bisogna vincere.

Poi corsi al mare.

Nel mare mi lavai il viso e le mani. Bevvi l’acqua salsa del nostro Adriatico. Lontano, nel tramonto, le alpi italiane eran rosse e oro come dolomiti. Sui trabaccoli romagnoli calavano le allegre bandiere tricolori, e il focolaietto di bordo fumava per la polenta. Mare nostro. Respirai libero e felice come dopo un’intensa preghiera.

Ma m’accorsi, dopo, che la gente mi guardava. I miei scarponi bullettati erano polverosi e i miei atti curiosi. Non avevo il viso di quella gente perfetta che camminava su e giù per le rive senza andare in nessun posto. Era gente che guardava ed era guardata. I giovanotti avevano larghi soprabiti a campana, con di dietro un taglio lungo, come le giubbe dei servitori, e bastoni grossi e lievi che volevano sembrare rami appena scorzati. Le signorine erano accom-