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e ha rubato la nostra tavola del bucato. Ma l’adoperò senza raschiar via il sapone incrostato. Aveva bisogno di rosai perchè noi lo burlavamo dei suoi fiori scempi, e li rubò dal nostro giardino, ma smarrendo sul terreno il gemello d’ottone matto della camicia. Babbo disse la domenica dopo in presenza di molta gente: — Go trovà ’sto botton. De chi ’l xe? — E Ucio esclamò: — ’l xe mio, ’l xe mio!

Così è Ucio, ragazzone. Il suo rutto puzza d’aglio e le sue mani sono piote. Quando va a fare la scorreria in campagna, torna con la camicia carica di pere dure, strappate senza gambo, come vien vien, ruggini dall’unghie, fracide di sudore del suo ventre pratoso. Egli non sa distinguere il buono dal cattivo, e mangia fagioli e patate, e brontola dalle profondità: — Xe bon, xe bon!

Ucio è innamorato di Vila. Dice: — Vila xe ’na stela. — E poiché lo zio di Vila l’ha cacciata infamemente dalla campagna, Ucio cammina a grandi passi su e giù per il piazzale, poi si stravacca di schianto sulla panca e giura vendetta.

Io ci sto. Ottima cosa è la vendetta! Sgusciare di notte tra gli spini della siepe con una lunga stanga in mano e la roncola in tasca! La notte è fonda e muta. Ormai tutti dormono. Le persiane del padron di casa sono chiuse. I cani abbaiano dall’altra parte della campagna.

Ucio dà una risata e diventa bestia. Agguanta la prima vite che trova e la stronca netta. Agguanta un ramo carico di susine e lo divarica puntandosi con le zampe sul tronco; poi piomba a terra con lui. Tonfa un enorme pietrone fra le crote dello stagno che gracidano a squarciapancia, e l’acqua putrida schizza e l’inonda. Si scuote, con una scarponata