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e per rabbia misi la mano dentro una siepe di rovo. Vila stette zitta. Io fissavo alcune piccole cose sul terreno: un ramettino rotto irregolarmente con due foglie passe e raggricciate, un batufoletto di seta del pioppo, che s’estendeva tutt’intorno in lenti filamenti argentei per l’opera predace di decine di formiche. Ella alzò gli occhi e mi guardò a lungo. Io sentivo un silenzio che non finiva più e che mi seccava assai.

Allora la presi fra le braccia con forza, e Vila perdonò. Fummo beati e pieni di amore per tutta la giornata.

Ma la mattina dopo Vila mi sfuggì. Correndo a perdifiato io l’accerchiai di lontano e sbucai fuori da un cespuglio davanti a lei. La presi per i polsi e le dissi duro: — Coss’ti ga? — Ti ga volù ti. — Si svincolò, e andò via. Poi, dopo qualche settimana, l’incontrai, mi prese le mani e le baciò.

Io fui subito contento di non esser più con lei; ma avevo confusi desideri, non m’interessava niente, m’annoiavo. A volte disteso per terra con gli occhi semiaperti nel cielo accarezzavo le giovani foglie, e d’un tratto m’avvoltolavo nell’erba dura dei prati.



Ucio è un giovanotto lungo e forte, le braccia pelose anche alla piegatura, i labbri tumidi, le gengive sanguinolente. Coltiva nel suo giardino begliomini, daglie s’ciave, crisantemi di S. Anna. Aveva bisogno d’un fondo per il cesto di fiori che annunziava pronto da cinque domeniche,