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canto a lei, si ricordasse dei nostri due anni spensierati! E la caccia col flobert ai merli e alle gatte? C’era quella civetta impagliata in camera tua, con l’ali chiuse e inchinata un po’ sullo stecco, solenne come una persona a modo. Aveva i gialli occhi di vetro, chiari nel semibuio della stanza, tondi, come un bersaglio. E un giorno tu caricasti misteriosa il flobert e stic! un occhio si spaccò. Ricordi? E io ti guardavo felice e meravigliato.
E un giorno ti dissi: — Vila, no ti xe più quela de una volta.
E tutto finì.
Ero stufo di lei. Aveva dei gusti strani che mi toglievano la libertà. Quando assieme ai compagni si dava la caccia con pali e forconi a un cane rinselvatichito, Vila d’improvviso s’arrampicava su un albero, e mi pregava: — Vien su.— Io m’arrampicavo, e guardavo dalle cime alte, scotendole stizzoso. — Vien qua, dai! — E m’accarezzava i capelli e il collo; poi mi baciava: e io sentivo le urlate dei compagni in caccia e i ringhi sfiniti del cane.
Forse anche, Vila non m’amava, non m’aveva mai amato. Avevo lievissimi sospetti; un colpo di sangue, e sparivano. Io non so com’era di me. A volte mi buttavo sull’erba, stanco e scontento. Ero inquieto e mi sarebbe piaciuto star qualche volta solo benché avessi bisogno di sentirmela vicina. E perciò, quando le dissi, quasi senza sapere, quelle strane parole, non capii perchè le avevo dette,