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la mamma del padron di casa, gottosa, reumatica, gonfia, con baffi neri sul grosso labbro.

La vecia io non la vedevo che di domenica, quando seduti intorno alla tavola del salotto, bimbi e babe e il fratello del padron di casa, tutto contento se vinceva un soldo, giocavamo a tombola. Essa non si poteva muovere. Era seduta su una poltrona portabile, con ruote, e teneva la destra, grassa come una pera che si sfà, accanto alla cartella, sul mucchio dei vetrini-segnanumeri. Quando doveva pagare la cartella, Vila le si accostava, le metteva la mano dietro la schiena e tirava fuori un sacchetto gonfio di tela grezza, chiuso con spago. La vecia aveva gli occhietti di un barbagianni di giorno: erano cattivi e fermi. Io li sfuggivo. Quando seduto accanto a Vila ginocchio a ginocchio, facevo finta di giocare, sapevo che quella vecia vedeva tutto, anche ciò che gli altri non vedevano, e ci odiava tutti, ma non poteva alzarsi. Avevo schifo di lei, e non mi fece niente pietà quando un giorno Vila mi disse che lo zio sputava in faccia alla mamma.

Lo zio era il terrore di tutti. Non era cattivo. Ma beveva rum, e in rabbia, sputava addosso alla gente e bestemmiava sempre sporcamente. — Ma io non voglio parlare di questa genia! Io voglio bene a Vila. Vila è buona e bella. Ha una camicia rossa scarlatta, un berrettino da giochei, scarpettine con tacco alto, e quando gioca a tamburello salta meravigliosamente da una parte all’altra.

Secchi, netti colpi battevamo col tamburello nell’ampio piazzale davanti alla grande casa gialla! Quando Scipio e Vila giocano, gl’inquilini guardano sorridenti dalle finestre e gridano: — Bravo! bene! — La palla rota come un