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pestando i piedi, e zio Guido, e zio Feliciano, e zia Mima, e Mario e Bruno, la nonna, zia Bice, papà, Toci, mamma, e zia Ciuta, prosperosa e matronale. Aveva uno sguardo benefico, e le cose diventavan facili e semplici com’ella ne parlava.

E quando tutti avevan già finito di mangiare e bevevano il caffè fumando i lunghi sigari virginia, la porta si apriva con grande sforzo e tu entravi nel tuo grembiulino candido con alle spalle i bei nastrini rosa, dormiglioso Pipi. Eri bello e sano, coi capelli biondi e le gambocce nude, la giovane carne ancora tiepida di sonno. I tuoi occhi strani, inquieti o estatici, guardavano contenti la bella tovaglia bianca che aspettava ancora te prima d’esser portata via, e i tanti piatti che papà aveva coperti con altri piatti a rovescio per conservarti calde le vivande.

E ti annodavano un tovagliolone odoroso di lavanda, ti mettevano davanti i lunghi, teneri risi nel grasso brodo di pollo; la coscia di pollo e l’ala per i tuoi denti aguzzi; l’ombolo liscio cosparso dalla salsa di capperi; le rosse ciliege carnose, a ciocche, con cui t’orecchinavi deliziato del loro fresco; il fettone di torta, la più grande fetta che il nonno tagliava apposta per te. E tu zitto, metodico, grave, sparecchiavi tutto senza domandare cos’era. Ma tutto ti piaceva, e tutto bastava appena per una corsa in giardino. Eri sano e forte; i tuoi compagni ti nominavano subito comandante, poiché li vincevi in corsa, in lotta e in tirar sassi.

Eri buono, e tutti ti volevano bene.