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Non riposerai. Questo ti prometto. Lavorerai piangendo dal disgusto, ma lavorerai.

Sei stanco, e forse non puoi far più nulla. Le tue mani non sono più abbastanza forti per il martello; il tuo cervello è annebbiato. Sei una bestia ferita a morte che cerca un nascondiglio per crepare. Sta bene. Ma lavorerai.

Tu non sai niente. Un piccolo atto incomprensibile ha disperso le meschine verità che t’eri racimolato a schiena curva. Sei solo e nudo. Sei inerte. Sei davanti a un mistero che ti sarà impenetrabile per sempre. Sta bene. So. Ma lavorerai.

Non sai perchè l’erba cresce e il mondo esista. Non sai se il mondo esiste o no. Non sai cosa tu sei. Può essere che l’universo sia nato da una maledizione. Il tuo dannato lavoro sarà, forse, eternamente vano. Ma lavorerai, come se tu fossi l’ultimo dei rimasti.

Dopo — non so se vi sarà riposo. Ma ti prometto che qui non avrai riposo. Qui lavorerai. Questo è certo.



Io voglio rifarmi forte e duro. L’aria del carso ha già sfregato via dal mio viso il color di camera. I polmoni tiran più lungo la fiatata. La schiena sente poco i Tassi. Io amo il corpo robusto, capace di patire, di resistere, di lavorare. I deboli mi fanno schifo, come creature dipendenti dalla pioggia e dal bel tempo. Salute è condizione di libertà. Le malattie vadano da chi è abituato a stare in letto — diceva mio zio — e non mi vengano a romper le scatole.