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frumento. Era quasi mezzogiorno; l’aria odorava di stoppie, e negli sfondi delle viuzze, tra le casette di pietra, le montagne coperte di vapori azzurrognoli si confondevano col cielo metallico, infocato. I muri scottavano. Gavina non aveva ombrello nè cappello; ma un fazzoletto di seta, annodato con una certa civetteria sull’orecchio sinistro, le avvolgeva la testa, facendo risaltare il pallore olivastro del suo viso dal profilo duro. E il suo viso scuro e triste aveva quasi un’espressione ascetica; ma quando sotto le folte sopracciglia nere le larghe palpebre bluastre si sollevavano lentamente, dai grandi occhi turchini sfavillava un raggio di passione e di gioia. Quei due occhi profondi, pieni di luce, davano l’idea di due squarci di cielo azzurro in un giorno di nuvole.
Del resto, in tutta la sua persona si notava qualcosa di rozzo e di aristocratico insieme: la sua camicetta d’indiana turchina, la gonna larga e lunga, le scarpe a legacci, erano da paesana più che da borghese; ma le mani e i piedi erano piccoli, e il portamento di lei, e specialmente la testa gettata all’indietro, la fronte ferma e pura sotto i bei capelli nerissimi rialzati, rivelavano una creatura di volontà e di fierezza.
Arrivata in fondo a una strada in salita, ella s’inchinò lievemente, facendosi il segno della croce. Si vedevano, su un’altura, le torri grigiastre della Cattedrale. La via più breve,