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nell’orto e dovette appoggiarsi all’elce, tanto si sentiva debole e sfinita.

Gli ultimi splendori del crepuscolo illuminavano il cielo, che verso occidente sembrava tutto di madreperla: una voce cantava in lontananza, ed al suo tremolìo pareva s’accompagnasse il tremolìo della stella della sera e quello delle fronde dell’elce. E tanto era dolce l’ora che per un momento Gavina dimenticò le sue pene; e all’improvviso le parve che l’elce, al cui tronco appoggiava la tempia, fosse vivo e palpitasse. Questa rivelazione la riempì di gioia: fu presa da una smania di tenerezza verso l’albero, poi le parve che tutte le altre cose intorno si animassero, ed ella s’accorse che le amava, che viveva e palpitava con loro.

Provò un languore di ebbrezza, le gambe le si piegarono; abbracciò l’elce e chiuse gli occhi; e nel suo momentaneo delirio le sembrò che l’albero fosse Priamo.



Fu un attimo. Si scosse, riaprì gli occhi e tutto le parve mutato. Ecco, ella aveva peccato ancora! Le tenebre la riavvolsero; si gettò sul muricciuolo accanto all’elce, morsicò le pietre, fu ripresa dal suo odio per tutto ciò che era vivo e palpitava!